Mario Sironi

Mario Sironi

Mario Sironi. L’interprete dell’Italia nuova

Mario Sironi, nato a Sassari nel 1885, da padre lombardo e madre toscana. Morirà il 13 agosto 1961 in una città deserta e in una casa presa in affitto alla periferia di Milano. Rimasto solo, nel suo disperato isolamento, lascia sul cavalletto un’opera non finita della serie delle Apocalissi, l’apocalisse giovannea, che della storia indica arcanamente il giudizio ultimo, cioè la catastrofe. In effetti Sironi era già morto alla fine dell’ultimo conflitto. Ha ricordato infatti Fortunato Bellonzi, nella monografia Electa del centenario, che allorché va a trovare Sironi, dopo la fine della guerra, lo trova con la faccia sofferente e lo sguardo incupito, fisso nel suo lavoro incompiuto, sul nostro destino di popolo sconfitto, sullo scacco subito dall’Europa. Per Sironi in quei giorni – scrive Bellonzi – l’ << argomento >> più importante su cui discutere, nell’incontro tra addetti ai lavori, non è la pittura, << ma – appunto – la condizione dell’Italia >>. Il pittore del << Popolo italiano >> con la faccia << sofferente ed incupita >>, parla della sconfitta e dell’Italia prostrata, mentre – scrive Bellonzi – << si inflittiva , nei cartoni e nelle tele incompiute, la serie delle reliquie della storia e della vita… visioni di violenza, di disperazione, di morte >>. Ma << la faccia di Sironi, sofferente e incupita – scrive Bellonzi – mi ricordò subito quella di F .T. Marinetti, quando ero andato a trovarlo in piazza Adriana, a Roma poco prima che partisse per Venezia; e quella apparentemente serena ma forse più accorata, di Giovanni Gentile, nella sede dell’Enciclopedia italiana di piazza Paganica, alla vigilia di andare a morire a Firenze >>. Il volto di Sironi, come il volto di Gentile e di Marinetti, segnato dalla stessa sventura, si animava di una tensione espressiva che nasceva dalla medesima pena, << alla vista delle rovine del paese; dall’interrogazione del corso della storia, fino a poco innanzi impreveduto; dall’esame di coscienza, se e quanto dovesse ciascuno di loro condannarsi e ritenersi colpevole; dalla constatazione della fine di un mondo in cui avevano creduto, e che tuttora ritenevano identificabile col mondo dei valori; e dall’estremo rifiuto del destino nel momento medesimo in cui stava per compiersi >>. Proprio così: l’ << estremo rifiuto >> di un destino che si compiva e che avrebbe rappresentato la condizione, ancora inarrestabile e vivente, di uno scacco che tutti ci coinvolgeva e ci coinvolge. Perché lo << scacco >> di Sironi, come ha scritto Jean Clair nel catalogo della mostra di Milano (1985), è anche il nostro scacco, lo scacco dell’Europa. La sua pittura rappresenta il lutto della nostra cultura, così come lui lo viveva, recluso e disperato, negli ultimi anni della sua vita. <<Che si abbia il coraggio – ha scritto in francese, un europeo di oggi – di guardare in faccia il suo lavoro; il nostro destino, diviso e dilaniato, vi si trova scritto >>. Ma la preoccupazione di Sironi non è solo quella di un italiano che aveva creduto in un mondo che sembrava cadergli addosso, ma anche quella legata alla constatazione che il suo interesse speculativo di artista, teso al concetto di arte-fede-comunità, non poteva considerarsi escluso e perciò da seppellire. Se è vero che solo attraverso le varie reti di riferimenti, congiunti alle analisi storiche, linguistiche e stilistiche, si possono capire e svelare i processi figurativi, che non sono mai autonomismi e separati. Sironi confermava, infatti, che solo se l’arte traduce l’etica del proprio tempo e della propria comunità, potrà tornare ad essere quella che fu nei suoi periodi più luminosi e in seno alle più alte civiltà: un perfetto strumento di governo spirituale. Invero Mario Sironi, come del resto gli intagliatori di pietre delle cattedrali medievali, si preoccupa del governo spirituale perché sa che esso deve permeare e guidare la comunità alla quale l’artista è legato.Ma sa anche che la comunità, se mortificata e non protesa in avanti, non può far uso del buon governo spirituale. D’altra parte sa che la comunità non può comprendere il proprio tempo senza avere conoscenza dell’uomo originario, perché solo così l’artista potrà riflettere nella visione la radice comune; testimoniando del potenziale e dell’attuale. Infatti sia che l’artista operi per la costruzione di cattedrali gotiche, oppure per innalzare in una piazza di Milano – come Sironi l’emblema del << Popolo italiano >>, cioè del lavoratore che è diventato guerriero della sua fede, non ha importanza che lo faccia in nome della tradizione o in nome degli ordinamenti civili, religiosi e politici del tempo: occorre invece che il suo linguaggio formale si all’altezza della tensione spirituale, che la forma attinge e rivela alla fede della comunicazione del suo tempo. E nella fede del proprio tempo non può esserci l’originario, che è poi la tradizione del << già stato >>, che ritorna, e passa nel proprio tempo. Del resto, la sua opera, collegata alla biografia in maniera coerente e sofferta, ha testimoniato di questa unità. Nei primi anni del secolo, Sironi, dopo aver abbandonato i suoi studi universitari alla facoltà di ingegneria, si dedica alla pittura, frequentando l’Accademia di Belle Arti di Roma, nonché sempre a Roma, lo studio di Giacomo Balla, ove conosce Boccioni, Severini, Cambellotti. Nel 1914 viene chiamato a Milano da Umberto Boccioni per la parte della direzione del movimento futurista. In quella occasione, Marinetti scrive a Severini che Mario Sironi ha << un carattere rettissimo e generoso… prende il posto di Soffici, con un ingegno cento volte superiore >>. Lancia due manifesti futuristi: << Contro ogni ritorno in pittura >> e << Orgoglio italiano >>. Dopo essere stato a Parigi con Boccioni e successivamente in Germania, ritorna in Italia allo scoppio della grande guerra e si arruola volontario. Viene aggregato al battaglione ciclisti insieme a Marinetti, Boccioni, Sant’Elia, Erba e Funi, combatte sull’Altissimo e con i futuristi partecipa all’assalto di Dosso Casina. Sciolto il battaglione ciclista, passa al genio e la fine della guerra lo vede ufficiale, in prima linea. Nel frattempo collabora come disegnatore alla rivista << Gli Avvenimenti >> di Umberto Notari. Rientrato a Milano, è tra i fondatori del << Gruppo dei sette pittori moderni >> che, nel 1922, raccoglierà gli artisti che si chiameranno poi del << Novecento >>, fra cui Bucci, Dudreville, Funi, Malerba, Marussig e Oppi, nonché lo scultore Martini, gli architetti Muzio e De Finetti, il pittore Carrà, transfuga dal futurismo e dalla Metafisica. Saranno questi artisti, insieme ad altri occasionali partecipanti, a dare consistenza alle mostre che il Novecento organizzerà con successo in Italia e in Europa, dal 1926 al 1929. Entra a far parte del corpo redazionale del Popolo d’Italia, per il quale quasi giornalmente pubblica illustrazioni e vignette satiriche. E’ responsabile della critica d’arte in quel quotidiano fino al marzo 1934 e che disegna le vignette storiche e illustrative nella prima pagina. Nel 1930 e nel 1933 fa parte del direttivo della quarta e quinta Triennale: quest’ultima verrà definita << l’edizione regina >>, in quanto, come si espresse il Corriere della Sera del 29 settembre 1975, << fu la più grande mostra della pittura e scultura murale: un altro motivo di gratitudine per Mario Sironi che la realizzò >>. Inoltre, la quinta Triennale rimase memorabile negli annali dell’ente milanese e dell’arte italiana fra le due guerre, anche perché pose a confronto diretto la nostra arte moderna (1933) con tutti i rappresentanti dell’arte mondiale, tra i quali Le Corbusier, Kandinsky, Klee, Gropius, Mies von der Rohe e Wright. Nel 1927, Sironi si occupa dell’organizzazione professionale degli artisti, facendo parte del direttorio sindacale. Partecipa alla XVI Biennale veneziana del 1928 e da quest’anno in poi allestisce padiglioni espositivi per mostre rappresentative in Italia e all’estero, fra i quali quelli della mostra del decennale, ideando la famosa << Galleria dei Fasci >>, che è da annoverare – secondo il riconoscimento odierno degli storici – tra i capolavori espositivi dell’architettura moderna. Allestisce la sala dell’Aviazione della grande guerra della mostra dell’aeronautica italiana e il salone d’onore della mostra nazionale dello sport, nonché il padiglione a Colonia con Muzio, anticipando le strutture tutto-vetro. Allestisce infine la sezione << Italia d’Oltremare >> nel padiglione italiano dell’Esposizione Universale di Parigi del 1937. Affresca l’aula magna dello Studium urbis della città universitaria di Roma con << l’Italia tra le arti e le scienze >> e prepara anche per la Triennale il mosaico dell’Italia Corporativa. E’ da ricordare anche il balcone scolpito in porfido del palazzo del Popolo d’Italia (ora palazzo dell’informazione), a Milano, nonché le vetrate del palazzo delle Corporazioni (ora ministero dell’Industria), a Roma, in via Veneto. Innalza il mosaico della << Giustizia fra la legge e la Forza >> nell’aula di Corte di assise, nel palazzo di Giustizia, a Milano. In questi anni si pone alla testa, anche in sede teorica, di un movimento per le grandi decorazioni murali di valore civile, religioso, patriottico e politico. Insieme a Cagli, invoca << Muri ai pittori >>. Dopo il 1945, quando gli ideali vengono travolti nel baratro della sconfitta dell’Europa, Mario Sironi, riprende la pittura da cavalletto, che aveva abbandonato per gli affreschi murali. Dal 1952 in poi espone solo all’estero, da Copenaghen a Oslo, da Boston a San Francisco, dal Colorado a Baltimora. Nel 1954 gli vengono conferiti il premio << Luigi Einaudi >> dall’ Accademia di San Luca a Roma e la medaglia d’oro dal ministro della Pubblica istruzione per i benemeriti della cultura.

Mario Sironi solo nel deserto

Al Palazzo delle Esposizioni, a Roma, lo storico Federico Zeri ha di recente messo in evidenza << l’incredibile vitalità culturale dell’Italia tra il 1919 e il 1933-35 e che ha aperto la speranza alla rivoluzione di Sironi, uno dei più grandi e coerenti artisti del XX secolo >>. Gli anni trenta hanno rappresentato, infatti, non soltanto la convergenza dei tre fenomeni culturali e politici, rappresentati dalle idee del futurismo, dell’attualismo e del fascismo, ma soprattutto l’unificazione linguistica in arte tra avanguardia e tradizione, grazie al contributo di Mario Sironi, figlio del futurismo e della metafisica. La sua opera ha consentito la convergenza unitaria delle arti in una forma che tenesse conto dei valori plastici e dinamici del futurismo e della vibrazione luminosa, originaria e incombente, della metafisica identificando la presenza dell’ << ideologia italiana >> e della tradizione che passa e si infutura. Nel momento in cui gli stranieri (da Parigi a Düsseldorf da Londra a Boston, a San Francisco) e gli storici italiani della portata di Federico Zeri, << scoprono >>, non sorprendente interesse, l’importanza europea di Mario Sironi, considerato il polo alternativo di fare pittura in Europa, rispetto all’egemone Picasso, appare indispensabile – senza alcuna remora di carattere ideologico, fino ad oggi considerato purtroppo preminente – l’esame dell’opera globale di Sironi, sia quella da cavalletto che quella condotta a fresco. Affrontare, cioè, l’opera relativa alle <<Periferie urbane >> considerato pertinente alla << sua pretesa intimità malata >> e << privata >>, unitamente all’opera in cui la visione pubblica offre la visione – come ha riferito lo stesso Zeri in << La percezione visiva dell’Italia e degli italiani >> – di una << società ordinata, operosa, senza tensioni né dialettiche >>. In conseguenza, se è evidente che il cosiddetto << desolante >> panorama architettonico delle << Periferie urbane >> o la lacerata condizione umana delle << Apocalissi >> del dopoguerra (gli ultimi dipinti di Sironi) sono stati resi necessari dalla situazione storica, sia del lavoratore (<< Periferie urbane >>) alle prese con il mondo industriale ottocentesco, consumista ed egoista, dedito all’economicismo e non allo spiritualismo; sia – negli ultimi lavori – nati nel momento in cui l’Italia, invasa da tutti gli eserciti, segnava il periodo più convulso della sua storia, è del pari incontroverso che l’opera cosiddetta << pubblica >> dal << Popolo italiano >> all’ << Italia corporativa >> e all’ << Italia tra le arti e le scienze >>, esprime la gravitas dei protagonisti che spiegano la coscienza di sé, di rappresentare i soggetti – e non gli oggetti – della storia, della politica, dell’economia. Se nella secolare e illustre dialettica tra funzione, struttura e rappresentazione, è la parte plastica che si lega alla struttura architettonica, mentre è la parte cromatica che dà luce ed emozione alla funzione della storia; è anche vero che la struttura, per farsi rappresentazione, non può trascurare la realtà e perciò farsi motivo di legamento tra la realtà originaria e quella del proprio tempo. Lo aveva avvertito lucidamente Sironi quando sostenne che la monumentalità, al contrario – diceva – è simbolo chiuso alle indeterminazioni e concentrazioni opposte alle dispersioni; è, in definitiva, un << blocco >> di fede! Ed è per questo che Mario Sironi, che non aveva conosciuto l’alienazione della civiltà decadente dell’occidente e la settorialità della lotta di classe, scaturita dalla rivoluzione industriale e da quella di ottobre, aveva posto le basi della rinascita della pittura monumentale e decorativa, tesa a far scoprire il proprio tempo alle forze emergenti, nate alla visione di un’Italia unita nelle trincee del Carso e verificata nell’ora magica di Vittorio Veneto. Mario Sironi, ponendosi al di fuori della produzione di una quadreria artistica dominata solo dall’estetica e destinata a sostenere il residuato intimismo dei salotti borghesi, puntava invece sui muri della città per indirizzare il messaggio << decorativo >> alle moltitudini che abitano i grandi agglomerati urbani, attraverso un legamento con la storia basata su due ordini di motivi: da una parte un legamento operativo e di ordine tecnico nei confronti degli antiquatissima signa della tradizione italiana, che, come, si sa, si era servita dei motivi dell’affresco, del mosaico e del l’encausto per esprimere il tempo della rinascenza; dall’altra, un legamento di carattere ideologico nei confronti di un passato che in tanto aveva un suo rilievo in quanto estendeva il suo effetto simpatetico e di consenso nell’attività concreta del proprio tempo. Cioè << decorazione >> in quanto il manifesto è destinato all’opera architettonica, e << tradizione >> in quanto (da traditio) avverte il bisogno del transito, del passaggio, della continuità dal passato al presente. Dichiarava, infatti, Sironi che << la pittura murale (come il bassorilievo), dall’affresco all’arazzo, dal pavimento alla vetrata, al mosaico, è “decorazione” così come sono “decorazione” i catini immensi di Ravenna, le Stanze di Raffaello, le sculture dei portali gotici >>. Ribadiva che << quadri e tavole furono per lungo tempo composizioni relative, rifinite all’ombra di antichi leggi murali >> e perciò legate al bisogno di una vita civile, al decoro sociale, all’insegnamento religioso e alla reviviscenza del sacro di una comunità che si serviva della memoria storica (non dell’evasione del primitivismo artificiale) come promozione al credere e al vivere (non come erudita citazione o arredo culturale). << Si trattava di sollevare la pittura dagli impegni meschinamente – pur se squisitamente – intimistici e privati, di levarla dal chiuso degli appartamenti per restituirla ai grandi spazi, alle navate dei templi, alle aule dei palazzi pubblici >> (Agnoldomenico Pica), agli stadi, agli aeroporti, agli arengari, alle palestre, in una parola, ai complessi urbani della civiltà moderna. Si deve a questo risultato, sul piano della pratica d’arte, se negli anni successivi alla fine della guerra, l’arte italiana, secondo gli storici stranieri (Norman Rosental, Pontus Hulten), si presenterà alla ribalta europea non in forza dell’identità << donata >> dai vincitori dell’ultimo conflitto (che era invece l’<< identità >> imposta dalle leggi di Yalta, e il muro di Berlino ne era il simbolo, entità che sono crollate), bensì in forza della presa di coscienza di una libertà sofferta, cioè avvertita e consapevole, perché alimentata nell’ambito di quella << provincia >> che più capiva se stessa e più prendeva con sé gli altri, più era italiana è più si sentiva europea. Come si vede, non si è trattato di una frattura tra le << due >> Italia, piuttosto di una continuità. Cioè << continuità >> negli anni Trenta e << continuità >> dopo il 1945, allora la nostra arte, solo in forza dei canali comunicanti che la legavano all’avanguardia italiana, ha potuto indicare al mondo le certezze di un primato, che presto gli storici stranieri ci riconosceranno apertamente. La riprova che la storia operata negli anni Trenta non obbediva a motivi restaurativi e /o citazionistici, si deve al fatto che Sironi, puntando nella fonte della tradizione per emularne – non ripeterne – le valenze più vive, ha saputo esprimerei valori di una italianità moderna in quanto densa di antichità, radicandoli consapevolmente ad una realtà e ad un presente che aspiravano ad una rinascita. Una << italianità >> che non isolava i valori coerenti, e che era più concreta e meno astratta, di quel vago europeismo che veniva altrove declinato in termini eclettici e artificiali, nel momento in cui l’equilibrio europeo avvertiva da Est e da Ovest i contraccolpi che portarono all’ultimo conflitto mondiale (e che oggi – come sapete – ancor non ci abbandonano…). D’altra parte, nella << provincia >> Italia, non solo si scopriva che più si è se stessi e più ci si intende degli altri (Giovanni Gentile), non si concretava e si verificava quel << modello >> che presto gli stranieri avrebbero riconosciuto più corretto e originale, e che passerà, con l’espressione del Pevsner, come la << variante italiana >> in grado, cioè, di compenetrare i momenti antinomici, rappresentati dai valori immutabili, e perciò moderni, di una classicità che,circolando nelle vene e nel sangue degli etruschi come degli Antelami, degli uomini della riconoscenza come dei profeti del cattolicesimo, dei portatori dei << signa >> di Roma e finanche dei progestatori architettonici del nazionalismo italiano moderno, avrebbe scandito ed esaltato i palpiti stessi della vita italiana di tutti i giorni. Nei favolosi anni Trenta Sironi ribadiva il convincimento che erano state proprio le avanguardie italiane, dal futurismo alla metafisica, dall’astrattismo al razionalismo architettonico, ad aver rivalutato quella << tradizione contestata >>, che da troppo tempo era vissuta di inedia ai piedi del culto stanco del << già stato >> e del << già fatto >> (dagli altri) ma che ora si metteva al passo in maniera concreta, imprimendo nei cuori e nelle menti, in una Italia arretrata industrialmente, frondista e frammentista, la dimensione (e la coscienza) di una nuova rinascita. A ben guardare, proprio per questo rinato << interesse >> per la sua opera, Mario Sironi, in una Italia diventata oggi << deserta >>, acquista una inaspettata importanza europea, per cui la sua arte postula con decisione una apertura verso i valori morali e civili più vivi dell’Europa. Proprio l’arcaismo mitico sirionano (le sue << voci primordiali >> ), per quella capacità di incidere nella realtà concreta e attuale del nostro tempo, può e deve rappresentare il momento alternativo per una pittura che si pone certamente alla pari con i grandi archetipi del passato, ma, in un drammatico confronto, qui e ora, anche per l’Europa di domani.

Livio Taricco

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