Filippo Tommaso Marinetti
Marinetti e la Rivoluzione Futurista
In un recente articolo, a firma dello storico progressista Nicola Tranfaglia, si afferma che l”equivoco futurista” ha, in effetti, colto “alcuni punti fondamentali”, ancora validi oggi, quali “l’attesa e la invocazione della modernità industriale, la rivendicazione aperta della potenza nazionale, lo annuncio di un nuovo primato italiano, in Europa e nel mondo”. In effetti, solo il Futurismo è riuscito ad “individuare nella letteratura, nella arte ma anche nella società, gli elementi caratterizzanti del “moderno” e li ha collegati, esplicitamente, all’avvento, in Italia, della seconda rivoluzione industriale”, ponendo le basi di quegli “stretti rapporti” – è sempre il Tranfaglia a riferire – “tra il Futurismo ed il Fascismo delle origini”, capaci di esprimere “non soltanto l’origine comune del mondo e della mitologia del combattimento ma, anche, più esplicitamente, l’attesa e la crisi di giovani intellettuali di classi medie urbane, mobilitate dal conflitto e, fiduciose, di fronte alla crisi crescente della classe dirigente liberale, di poter realizzare quella “rivoluzione italiana” immaginata già prima della guerra”. L’indagine storica conferma, anche dal versante antifascista, quello che già Nino Valeri e, successivamente, Renzo De Felice, avevano individuato sulla capacità dei programmi – azione di Marinetti si segnare “una nuova fase per la nostra storia, in cui la sorgente cultura nazionalista, congiunta con quella di segno opposto, ispirata al sindacalismo rivoluzionario, di origine soreliana, cominciò ad avvolgere il Paese in una sorta di crescente esaltazione eroica di timbro opposto a quello “assennato”, proprio di Gioliti, imprimendo così un primato culturale per l’Italia, nella rinnovata atmosfera di concordia nazionale” (N. Valeri). Si è andato, cioè, confermando, a più livelli storiografici, che i motivi libertari ed anarchici dei futuristi differivano da quelli dei gruppi eversivi, in quanto collegati ai programmi che andavano costruiti e non solo a quelli che andavano demoliti o distrutti. Lo ha riferito lo stesso Gramsci, secondo cui per i futuristi “distruggere non ha lo stesso significato che nel campo economico, distruggere non significa privare l’umanità di prodotti materiali necessari alla sua sussistenza ed al suo sviluppo; significa distruggere le gerarchie spiritual, pregiudiziali, idoli, tradizioni irrigidite; significa non aver paura della vanità e delle audacie”. Proprio per questo la simpatia per il “Socialismo con la S maiuscola” era riservata, dai futuristi, agli irregolari, cioè, ai sindacalisti rivoluzionari, negando qualsiasi addentellato con i socialisti storici riformisti che, a dire di Gramsci e di Labriola, avevano “un passo breve e lento nel campo della realtà”. E se l’interventismo conquistò “tutta la cultura italiana”, in effetti i futuristi interventisti caratteriali, prima per necessità storiche, non sono mai andati d’accordo con l’interventismo di Gramsci, dei cattolici, dei democratici alla Bissolati e degli amendolini. Proprio perché le fonti ideologiche che hanno dato vita, ed attualità storica, a Marinetti ed ai futuristi sono da far risalire alle idee espresse da Nietzsche e da Sorel, come ha scritto il De Maria nell’introduzione all’”Opera Omnia” di Marinetti; “al disprezzo della vita comoda e della vita borghese, l’odio per i politicanti e per i socialisti ufficiali, l’avversione per la grande macchina dello Stato”. proprio per questo Marinetti concepisce la Nazione Italia come un idea creativa e volitiva, “una idea generosa, eroica, dinamica, futurista … cementata dalla generosità dell’individuo straripante”. D’altra parte, non ha mai fatto distinzione tra poesia e lotta, perché “non fa della poesia se non chi fa la guerra”. E se ha inteso la guerra “igiene”, e perché era consapevole che l’individuo, solo con la lotta, si spersonalizza e si libera igienicamente delle tossine della pace, cioè, “egoismo ed inerzia dello spirito”, secondo la perentoria affermazione di Dostojewscki. La lotta è, pertanto, non solo la mistica e soreliana “bellezza della violenza”, ma il motivo basico ed il bisogno nietzschiano di rinnegare la stagnazione e la stasi; da qui la lotta storica – guerra del popolo quando occorrerà completare l’unificazione risorgimentale dell’Italia – e la lotta rivoluzionaria e politica quando i “pacifisti eunuchi”e le “miserabili carogne”, legati al “morbo burocratico del Comunismo, immobilizzeranno le piazze per “seppellire primavere entusiaste e cacciare, in fondo al loro letamaio ideologico, la deliziosa Italia, ferita che non muore”. Sicché, nonostante la “franca antipatia per le politiche e le diplomazie al latte e miele”, Marinetti, sentirà la necessità di fare politica attiva “nei momenti più gravi per Nazione”, per scongiurare, appunto, la ascesa dei “furbi”, degli “affaristi”, dei “Maneggioni”, e liberare gli italiani dalle malattie del cinismo e dell’ignavia, cioè, dall’abitudine di trascurare, per gli interessi e le mode straniere, i caratteri e le virtù creative del popolo italiano. Ed è per questo che Marinetti, proprio perché non ha inteso la cultura come un “fatto separato” ed e sempre stato contro “l’uniformità riposante e fissa che tutti i comunismi promettono”, ha pensato di “liberare l’Italia”, attraverso la politica “travolgente ed incendiaria”, dalla abulia e dal disimpegno. Gli articolati rilievi ci confermano, dunque, che Marinetti, nonostante il suo preteso cosmopolitismo culturale – era nato in Egitto, vissuto in Africa e poi in Francia, allevato da una nutrice sudanese e compiuto gli studi in ambiente cattolici e francese – non ha mai nascosto il suo amore sviscerato per l’Italia, al punto che non esiterà – proprio lui, il libertario che auspicava tutte le libertà per l’individuo ed il popolo, “tranne quella di essere vigliacco” – a proclamare il dominio della parola Italia sulla parola libertà. E che nel tempo in cui la vita politica e sociale era fatta da pacifisti eunuchi e da miserabili carogne” (soltanto allora?), egli auspicherà la istituzione di “scuole di coraggio fisico e di patriottismo” per “opporsi al naufragio dello spirito” e ad ogni volontà di livellamento. Tutto – diceva – “sia concesso al proletario nazionale, salvo il sacrificio dello spirito, del genio, della grande luce che guida”. In un tempo in cui la politica ed il potere pubblico erano il campo preferito dalle clientele e dalle consorterie (soltanto allora?) penserà di portare “l’arte e gli artisti al potere” cioè l’immaginazione al potere, nella convinzione che solo dalla “rivoluzione artistico – letteraria” potrà essere superata la “rivoluzione politica”, cioè, genio, arte, forza ineguaglianza, bellezza, spirito, eleganza, originalità, colore, fantasia, sull’appiattimento, sulla vigliaccheria, sul politicantismo, sulla “stupidità brutale ed alcolizzata – diceva – della più rossa delle violenze”. Intanto che il lancio del “Manifesto del Futurismo”, del 1909, pubblicato in Francia, sul “Figarò”, a pagamento, e non per gentile concessione, è detto chiaramente che “è dall’Italia che noi lanciamo pel mondo questo nostro manifesto di violenza travolgente, col quale fondiamo, oggi, il Futurismo, perché vogliamo liberare questo nostro Paese … dai pacifisti eunuchi e dalle miserabili carogne”. Si serve della lingua francese perché conosce il provincialismo degli italiani, i quali, come si sa, apprezzano solo quello che proviene da oltre Alpe. Marinetti, afferma, per la prima volta, la concezione di una letteratura e di un’arte, intese come rottura del passato e come impossessamento della realtà in atto, cioè, azione e lotta, e non contemplazione, “non fa dell’arte- diceva,- se non chi fa la guerra” , anticipando così quella che poi passerà come l’epoca dell’ “interventismo della cultura”. D’altra parte, Marinetti, con il Futurismo non intese fondare una corrente estetica, una delle manteche erano sorte in Europa, dopo la rivoluzione, silenziosa ed episodica, dell’impressionismo e dopo la rivoluzione epidermica e di gusto liberty, ma, un movimento legato all’ideologia della vita e perciò politico. E, infatti, la comparsa politica del Futurismo fu contemporanea alla nascita artistica, per cui, alle elezioni del 1909, Marinetti lancia il primo “Manifesto politico”e subito dopo, nel “Discorso ai Triestini, ancora irredenti, conferma che “in politica siamo tanto lontano dal Socialismo internazionalista ed antipatriottico – ignobile esaltazione dei diritti del ventre – quanto dal conservatorismo, pauroso e clericale, simboleggiato dalle pantofole”.
La rivoluzione nazionale
Fin dai primi anni di questo secolo, il pensiero – prassi e le idee – lotta di Marinetti avevano svegliato le coscienze e preparato il terreno a quella “rivolte” che, al suo apparire, si dimostrerà più attesa che subita per tanti italiani, “tanti europei”. E se il suo manifesto di fondazione veniva più svolto che pensato, nella lingua di Corneille, la sua seconda lingua, non è da escludere che, rivolgendosi all’Europa nella parlata più congeniale agli europei, essa servisse, soprattutto, come detonatore per i “provinciali italiani, sempre in attesa degli echi d’Oltralpe”. Soprattutto la sua poesia, esattamente ne “la Conquète des ètoiles”, del 1902, mentre viene introdotta da una lunga citazione dell’XXI canto del Paradiso dantesco, porta decisamente le suggestioni linguistiche del Simbolismo “da noi, delle melopee pascoliane e dell’alcyonismo dannunziano” fuori del sublime e dell’estenuato, con un metro dantescamente roccioso e, nello stesso tempo, inventivamente nuovo, colmando il divario tra la crisi dei valori simbolisti e l’incipiente psychisme che l’opera di Freud rivelerà a Tzara ed a Breton, a Kafka e ad Eluard, a Svevo ed a Pirandello. “Non ceselliamo parole come le coppe”, diceva con compiacimento parnassiano Verlaine, Marinetti compenetrava, invece, le parole al tintinnio delle coppe ed ai borborigmi dello champagne “presto al reiterato scoppio degli shrapnel o all’aderenza delle parole furenti alla lotta politica”, fino a liberare il suono dal significato logoro e consuetudinario. Ovvero, a dare un impulso, gestuale e declamatorio, alle parole, attraversale balenanti metafore e le frizzanti onomatopee sonore. Marinetti aveva interpretato le vie moderne del trio Lautrèamont – Rimbaud – Mallarmè, attraverso la frantumazione delle immagini e dei significati, ritenuti “corpo separato” della letteratura, con sconcertante contemporaneità rispetto ai cubisti, avviati alle scomposizioni ed alle scansioni della pittura. Aveva anche individuato quella, vera e propria, “rivoluzione linguistica”che tende alla resa simultanea, nei diversi piani del concettuale e della emozionale, del sintagma verbale e del regno tipografico, come fanno i poeti visuali del nostro tempo. Marinetti aveva sottratto l’immagine alla sfera dell’estetica ed alla sospensione mistica o privatamente esistenziale ed intimistica, fuori dal descrittivismo e dal sensualismo ottocentesco, con una duplicità di procedimenti da un lato, con una carica persuasiva espressiva esasperata “a cui non è estranea la convinzione ideologica di assolvere il compito vaticinato da Lucini, secondo cui il Poeta moderno è un sacerdote”. Scienziato, “Vate che canta nelle arene”, con l’automatismo gestuale suggerito ed orchestrato sulla magia del profondo in grado di recuperare i sogni, come dirà, poi, Soffici. Soprattutto, in un Paese popolato dagli estenuati abitatori dell’ Arcadia “le Muse abitano le delizie e non gli orrori” aveva scritto G.B. Marino, nel 1612, in grado di cantare l’amore del pericolo, l’abitudine all’energia ed alla temerarietà, il coraggio, l’audacia, la ribellione”, cioè di spettacolarizzare il coraggio di vivere. Per quanto concerne le arti figurative, sebbene il manifesto marinettiniano, del 1909, non intendesse riferirsi esplicitamente ad esse, vi è, in effetti, un sostanziale accenno al loro radicale rinnovamento, attraverso il forte e polemico invito a disertare i musei, dove non si fa che condurre a passeggio Le nostre tristezze, il nostro fragile coraggio, la nostra morbosa inquietudine”. E quando Marrinetti proclamerà che “nessuna opera che non abbia un carattere aggressivo può avere un capolavoro” non farà che scuotere, dalle fondamenta, le nostre inveterate abitudini a vedere senza sentire ed a sentire senza sapere. Nel primo manifesto della pittura, il concetto viene recepito con la affermazione – cardina di tutto il messaggio, secondo il Futurismo si ribella alla “supina ammirazione delle vecchie statue, degli oggetti vecchie dello entusiasmo per tutto ciò che è tarlato, sudicio, corroso,dal tempo”, non soltanto per il rifiuto del citazionismo, ma, soprattutto, perché è ingiusta “l’avversione” per tutto ciò che è giovane, nuovo e palpitante di vita”. Occorre, infatti, notare che nel manifesto della pittura non si dimostra avversione per quella traduzione che passa e che si pone in un legamento ideale con la modernità “da qui il richiamo ad artisti come Segantini, Previati e Medardo Rosso, che vengono riconosciuti come i contenitori di un passato – presente”, ma per quella nefasta” necrofilia, che annulla la creatività, e per quell’esagerato feticismo archeologico e museale che porta all’ammirazione del “tarlato, sudicio, corroso dal tempo”. Da qui, per converso, l’esaltazione di tutto quello che è vitale perché è valida “soltanto quell’arte che trova i propri elementi nell’ambiente che la circonda”. In conseguenza, se arte ed ambiente devono collimare per essere apprezzati esteticamente, non si può “rimanere insensibile alla frenetica attività delle grandi capitali, alla psicologia nuovissima” degli abitatori dei porti, delle stazioni, delle sottostrade, degli aeroporti delle cattedrali. Il manifesto tecnico, della pittura, che appare più ricco di spunti e meno generico del primo, punta decisamente al dinamismo pittorico come elemento distintivo del Futurismo, sicché il “complementarismo congenito” che è un mezzo necessario per la pittura, svolgerà la stessa funzione del verso, voluto da Marinetti, nella poesia e nella musica. Come si vede, si “preconizza”, con lucidità, l’avvento di un simultaneismo capace di rendere dinamico il rapporto ambiente – figura per cui “il gesto, per noi,non sarà mai il momento fermato di dinamismo universale: sarà decisamente la sensazione dinamica esternata come tale”. Da qui le affermazioni, di indubbia provenienza marinettiana e bocconiana, che “le sedici persone che avete intorno a voi in una tratta, che come, sono una, dieci, quattro, tre, stanno ferme e si muovono; vanno e vengono, rimbalzano sulla strada divorate di una zona di sole, indi tornano a sedersi, simboli persistenti della vibrazione universale”. Non si tratta quindi di un riflesso ottico e della spazializzazione fisica del tempo, residui della tecnica oggettiva impressionista e fotografica, bensì, della compenetrazione di un stato d’animo che appartiene all’ubiquitario e non al sedentario, che impegna e travolge chi vuole bruciare le tappe del tempo, come avverrà nello spettacolo futurista. A fronte della letteratura drammatica che ha dominato l’Ottocento, fa da spartiacque l’opera drammatica di Marinetti e che – secondo il rilievo di Giovanni Calendoli – costituisce “un momento fondamentale della l rivoluzione del gusto teatrale contemporaneo”. Infatti, l’importanza del teatro di Marinetti, va emergendo sempre di più, non solo perché sono state identificate le influenze esercitate sul teatro “nuovo” Italiano, da Pirandello ai “grotteschi” Chiarelli, Rosso di san Secondo, Cavacchioli ed Antonelli fino a Brabaglia ed a Bontempelli, cioè “dai sei personaggi in cerca d’autore fino all’Orlando furioso di Sanguinetti e Ronconi, ma, perché non sono estranei alla teoresi marinettinana i legamenti riconosciuti dalle avanguardie teatrali russe, tedesche e francesi: sicché non è più azzardato ritenere debitori di Marinetti il russo Majakowsky come il tedesco Walden, l’americano Wilder e gli spettacoli del Cabaret Voltaire di Zurigo, il teatro dell’assurdo, da Ionesco a Beckett, ad Arnabal, e il teatro libero e della violenza, il Living Teatre ed il Bread and Puppet, per non parlare dell’influenza sull’intuizione “indotta” di Brecht, circa ‘idea di “straneamento” degli spettatori, nonché quella di Artaund sulla azione “comunitaria”, in base alla quale il pubblico, non più passivo, concorre alla rappresentazione in maniera del tutto autonoma ed inaspettata. Con ciò dimostrandosi che i tempi hanno inteso la portata rivoluzionaria del teatro futurista, mentre il pubblico di ieri e di oggi “parliamo della masse degli spettatori e degli adepti del clubs clandestini ed èlitari” ha dimostrato di saper discernere e reagire, con vivida intelligenza e senso spettacolare, alle sollecitazioni, dirette o indirette – di quel “prefiguratore delle principali tendenze dell’arte moderne” che è stato Marinetti.
La rivoluzione sociale
La priorità e la tempestività con cui Marinetti ha fatto partecipe l’Italia umbertina “e l’Europa” del rinnovamento delle arti e della letteratura costituisce un fenomeno isolato per un Paese, come il nostro, che non si è mai accorto dei fenomeni artistici, al loro nascere, e che ha sempre aspettato l’imbeccata proveniente dall’estero. E’ stato ai primi di questo secolo, già arrivato al suo traguardo, che Marinetti si è accinto ad affermare le nuove idee, progettuali, pluraliste, in movimento e, non più, immobilizzate in un sistema filosofico od in una categoria prestabilita ed invariabile proprio negli anni in cui, a Torino, arrivava, dall’estero, il messaggio, ormai spento, di un “art novelle” – da noi Liberty – ridotta a prodotto commerciale. D’altra parte Marinetti, a volte, con assoluta priorità, rispetto alle altre avanguardie europee, ha proclamato che “il tempo e lo spazio morirono ieri”, escludendo che queste categorie potessero essere indipendenti o concluse, rispetto alle idee . lotta della storia. Infatti le sue idee progettuali ed innovative, al contrario dei propositi delle altre avanguardie, non escludevano le insorgenze ed emergenze politiche, perché Marinetti, come aveva appreso da Gentile, 1898, sapeva che il pensiero “è lotta” e che “l’amore del nuovo” non nasce senza la volontà politica dei migliori e del governo degli audaci. Perché Marinetti sapeva che “l’amore del nuovo” ha bisogno innanzitutto di riscattare i linguaggi della logica abitudinaria e dalla rete degli “scetticismi”, dal momento che il “novus ordo”,”più che un’idea estetica, voleva, e doveva, essere un’entità morale”. Infatti l’arte – vita, auspicata dai primi “franchi tiratori” della cultura contro le regole storicizzate delle società tradizionali chiuse, si tramuta con Marinetti, in arte – azione, intesa come “bandiera rinnovatrice, antitradizionale, ottimistica, eroica e dinamica, che si doveva inalberare sulle rovine del passatismo”, quel passatismo che aveva diffuso uno “stato d’animo statico e tradizionale, professionale e pessimistico, pacifista e nostalgico, infine decorativo ed estetico”. Come si vede, già nei primi otto anni di questo secolo, si profilava, in Europa, grazie a Marinetti, la necessità che fosse l’immaginazione ad andare al potere, per mettere “ali estreme alla politica ed alla letteratura” e creare così gli “eroi di tutte le forze e di tutte le bellezze”, in quanto “nella carne dell’uomo dormono le ali”. Fin da allora si auspicava la creazione di una base comune tra uomini di cultura e di lotta, in grado di affermare “un’idea assolutamente superiore” e di rappresentare “al massimo allargamento della generosità dell’individuo straripante, in cerchio verso tutti gli esseri umani simili a lui o affini, simpatizzanti e simpatici”. Nonostante “l’accelerazione del tempo”che il secolo stava subendo, con lo implacabile mutamento del linguaggio e dei mezzi di produzione, con la incipiente massificazione, i motivi culturali e le ideologie coerenti , invece di porsi a difesa dell’individuo “straripante” e delle “grandi folle agitate dal lavoro, dal piacere o dalla sommossa”, si arroccavano a difesa delle società chiuse, costringendo l’ideologia, da sistema progettuale “Straripante”, a bisogno di “autoinganno”, cioè, “a scopo di giustificare, di occultamento, di evasione”. Marinetti, invece, affermava “un’idea assolutamente superiore”, una nuova “idea di Patria”, cioè, “un’idea generosa, eroica, dinamica futurista”. Infatti in “Democrazia futurista”, aveva confermato che la vera concezione di Patria nasce, per la prima volta, oggi, dalla concezione futuristica del mondo. E’ stata, prima d’ora, - scriveva una confusa miscela di campanilismo, di retorica greco – romana, di eloquenza commemorativa e di istinto eroico incosciente. Hanno, stupidamente, poggiato sulla commemorazione degli eroi morti, sulla sfiducia dei vivi, sulla paura della guerra, sulla restaurazione conservatrice di tutto ciò che era morto”. Mentre “rappresentava il massimo allargamento” della volontà, dello impegno, della pienezza morale dell’ “individuo straripante”in un’Europa viva e vitale, allargata politicamente e non conclusa come entità geografica o, peggio, come mercato economico. In definitiva Marinetti, avendo avuto di mira il rinnovamento totale della società, non soltanto ha dovuto accorciare le distanze tra il linguaggio letterario – artistico ed il rinnovamento scientifico – tecnologico, ma ha, di fatto, eliminato le distanze tra occultazione èlitaria ed antropologia, tra il pensiero statico libresco e “praxi vulgaris” tra immagine sedentaria ed azione creativa. Ha, in effetti, esteso la tipologia dinamica della macchina computerizzata e robotica nella realtà elettronica che ci avvolge. Il fondatore del Futurismo ha così cambiato i comportamenti ed ha trasformato le forme, le tecniche, gli strumenti, i linguaggi del mondo moderno, per liberare l’uomo dai “valori sedentari” perciò sempre decadenti. D’altronde la “liberazione” dei linguaggi è stata ottenuta, da Marinetti, attraverso il riscatto dei materiali e dei simboli della nostra civiltà di massa, al di fuori dei canali utilitari e di consumo. Specialmente nella funzione tra scrittura e pittura, Marinetti mette insieme materiali linguistici diversi e storicamente delimitati, colpendo al cuore le culture accademiche, che hanno sempre nel preordinato sintagma la base logica di discorsi linguaioli, e nel confezionato pittoricismo, l’elemento del bello artistica da imitare. La nuova teoresi della poesia trova invece la sua pratica attuazione nelle parole libere marinettiane, legate alle parole in libertà ed alle immagini decontestualizzate. Occorre dire che, sul piano storico, indubbiamente, preesistono alle teorizzazioni marinettiane, espresse su il manifesto dell’ “alfabeto a sorpresa”, del 1914, nonché con le tavole parole libere, esposte nella Galleria Sprovieri di Roma, nell’aprile 1914, sia la pittura rupestre e la pratica dei miniaturisti medioevali, che la formazione sperimentale di Mallarmè del celebre “Coup de dès”, 1897, e di Cristian Mongerstern di meno noti “Galgenlieder”, 1905. Appare in tutta evidenza che si tratta di operazioni intuite e, comunque isolate, tali comunque, da non potersi paragonare alla profonda trasformazione dei codici linguistici tradizionali, operata da Marinetti e, successivamente, divolgata dai futuristi Bellioli, Benedetto, Cangiullo, Balla, Depero, Carta, dal Paysage animè di Apollinaire, dai Poemi Za – un di Klèbnkov e dai più recenti esperimenti dadisti e surrealisti, da Duchamp a Picabia, da Magritte a Breton, senza escludere i geografici di Ezra Pound. Da quella data, è iniziata la distruzione della poesia intimista e sedentaria, liberata dai vincoli grammaticali e vista nelle sue “significazioni e stratificazioni” che appartengono all’obliquità dell’uomo moderno ed alla nova comunicazione tridimensionale – vocale, verbale e visuale. Ciò con più civiltà guttenberghiana, lineare ed uninominale. Se Leonardo da Vinci aveva detto che “la pittura è una poesia muta”, mentre “la poesia è una pittura cieca”, ora l’artista ed il poeta troveranno il continuum tra il fonema, che diventa immagine visiva, ed i timbri cromatici, che troveranno nella parola dell’alfabeto, come scrisse Marinetti, “un valore calligrafico personale, espressione grafica dei nervi, impronta dei muscoli della mano”, comunicando così con il loro valore caratteriale e fonetico, iconografico e gestuale. Cioè il linguaggio delle moderne tecnologie della diffusione. Da qui la raccomandazione di Marinetti, secondo cui le tavole parole libere non dovevano essere “soverchiate dalla pittura”, cioè dalla “poesia muta”, ma idonee ad essere immediatamente afferrabili in un solo colpo d’occhio”, e, perciò pittura non più cieca in quanto l’avvistamento è dato dalla funzione assunta dai caratteri tipografici mobili e non più lineari. Dopo queste premesse, che hanno avuto, per qualcuno, “il torto di avere anticipato, 1913, i futuri e presenti rapporti con i mass media, appare scontato il rilievo della critica secondo cui la poesia visiva è lo scheletro ingombrante nell’armadio che gli addetti ai lavori non sanno più se collocare nel rapporto letteratura od in quello della pittura. Rilievo scontato, come si vede, ma non risolutivo del problema, sul piano estetico, dal momento che l’accelerazione storica sta mettendo sotto i nostri occhi il rivolgimento che la vecchia educazione estetica non riesce ad interpretare. Con la conseguenza che non è difficile prevedere “che con lo sviluppo delle tecniche industriali si arriverà ad un sistema di comunicazione diversa e talmente complessa da fare scomparire – ha detto Argàn – non dico la parola, ma il discorso”. Come si vede, il rilievo ricalca il pensiero di Marinetti: “Il libro, mezzo assolutamente passatista di conservare e comunicare il pensiero, era, da molto tempo destinato a scomparire come le cattedrali, le torri, la mura merlate, i musei, l’ideale pacifista; il libro statico, compagno dei sedentari, dei nostalgici e dei neutralisti, non può diventare ne esaltare le nuove generazioni…”.
Il Libeccio